Testimonianze

Settimanale "Vita Chiavarese" del 8/7/16 e del 29/7/16 - Anno VII - n° 28 e 31
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Una visita a Giuseppe Sacheri

Ero suo vicino e non lo sapevo.
Quando venne ad abitare qui, in casa me lo dissero un pittore, e null´altro. Solo durante la preparazione dell’attuale Mostra ne appresi il nome, il bel nome. Ed io, nonostante che una dozzina d’anni di burocrazia abbia ormai del tutto fatto cessare (per mancanza di esercizio, di tempo e di... buona disposizione) ogni prurito letterario ed artistico - con relative dimenticanze... - nonostante che le mie particolari condizioni di spirito e... di corpo mi rendano poco adatto per le interviste, volli soddisfare al piacere di conoscere in persona il Maestro, per conto mio, e d’intervistarlo per conto della "Vita". Non tanto per ragioni di buon vicinato quanto di... paesaggio. Infatti; chi meglio indicato ad intervistare colui che il paesaggio è così egregio e fedele interprete di quegli che di una Società di paesaggio è fondatore (o quasi)?...
Ed un’altra ragione, eravi: quella (vedi modestia!) di una certa colleganza... perché in altri tempi fui pittore anch’io. Voi mi direte, non senza, forse qualche malignità, che da ragazzi s’è tutti più o meno pittori (sull’una o sull’altra tela...). Ma io vi soggiungo che la pittura fu una delle mie più pertinaci passioni giovanili, talché, ad un certo punto, in casa si decisero a farmi lasciare gli studi (per intenderci) Tecnici ed ad iscrivermi all’Accademia di Belle Arti, a Firenze, ov’ebbi, tra gli altri, a maestro Jacopo Cavallucci.. Ma, ahimè, insieme all’Ornato, che mi piaceva, stava il Geometrico, che presto mi spinse a prender definitivamente l’uscio; essendomi, pur troppo, sempre trovato e trovandomi fra coloro che potendo prendere le cose a volo (quando le pigliano...) preferiscono, quasi d’istinto, lasciare ad altri, la cura di quelle che richiedono lunga pazienza, anche se questi concludono, quelli non concludono mai niente e nonostante la loro bramosia di tutto apprendere finiscono nel non saper nulla di nulla. Quanto a me, ciò dipese...
Ma ecco che invece d’intervistare il mio illustre vicino sto intervistando me stesso. Mi fermo subito, solo aggiungendo che il premettere quanto precede mi parve e pare opportuno, se non necessario, per giustificare ciò che altrimenti sarebbe - né miei riguardi - ingiustificabile, se pur si tratti di una intervista di scorcio, anziché in piena prospettiva, o, se vi piace, a mezza tinta.
* *
La prima impressione sull’artista l’ebbi da quella sull’uomo. In entrambe mi confermarono l’esame, le opere, le parole. Ma entrambe mi resero sulle prime, perplesso, circa la visita... Presentarmi a chi, modestamente, lungi da ogni mondan rumore, vive tutto dedito all’arte e alla famiglia, assorbito dalla visione di cose, forme, luci, spesso irraggiungibili - nelle natura e nell’anima e che tanto costano di spasimi, di lavoro, febbrili - parevami profanazione, od eccessiva audacia.
Pensavo: se molto Egli eccelse, molto vuol dire che amò ed ama l’arte sua, e molto amando l’arte, moltissimo ama la Natura. Perché si può amare la Natura e non l’arte, ma non è possibile amare l’arte senza amar la Natura. E quanto più si ama questa tanto più si sente innato, direi istintivo, bisogno d’isolarsi dal mondo, che non è arte ma artificio, tanto maggiormente quanto più eletto il sentire, quanto più dell’alma mater s’intendano gli ascosi insegnamenti, si ascolti il palpito misterioso, si scorgano gli immortali eppur mutevoli aspetti, si comprendano le divine armonie.
La solitudine, propria a tutti gli uomini di pensiero e di sentimento, è più propria, anzi necessaria all’artista. "iniziato" o no, per ragioni di spirito, pel suo stesso lavoro. Per esso, veramente, la Beata solitudo è anche la sola beatitudo. Contemplativa ed attiva all’un tempo. Dal Segantini, che esula oltre i 2000 metri, al Michetti che si chiude in un diruto convento, ed anche adesso vive da cenobita.
In ciò, per ciò, l’artista è sé stesso.
Mi sovveniva, inoltre, del Maestro - intraveduto distrattamente in qualche raro incontro stradale - il forte tratto, l’impronta de’ chiari occhi severi, una non so quale espressione di restio, poco incoraggianti per gli importuni.
Ma dal suo volto, dal porgere, da tutta la persona emana - meglio chiara se meglio osservata - quella intima, sostanziale bontà che, nelle sue più sincere forme, nelle più fini manifestazioni, - anche se non subito né sempre avvertite - s’ammanta di rudi apparenze.
Egli è, dunque, un solitario, quindi un sincero, quindi maggiore nell’arte sua, qualunque essa fosse, la passione, l’impronta, l’espressione, che costituiscono il vero artista e che non possono apprendersi nelle accademie le quali - dannose, anzi per le loro costrizioni allo sviluppo della personalità artistica; pressoché inutili pei predestinati - formano solo dei pittori, e delle quali i maggiori artisti ebbero ed hanno quel concetto che sapete.
Poeta della pittura, Egli va per la sua via, verso la sua meta, senza preoccupazioni di scuole, o di cenacoli. Non di puntinismo, né di divisionismo, né d’impressionismo, né di secessionismo, in cui spesso non è che dell’arrivismo.
E nel suo stesso isolamento è anche la riprova del come egli rifugga, da ogni pubblicità od invadenza, fonti di effimeri successi. Allo stesso modo, la sua poca espansività è l’indice del suo profondo sentire. Allo stesso modo, nella sua schiva modestia sta la miglior prova del suo valore.
Ed il valore è grande perché la sua arte è personale, in quanto sentita.
Nelle sue tele, specialmente in alcune di esse, vi è la convinzione, la passione, insomma quella sincerità che, tanto più apprezzabile nella vita quanto più si fa rara, maggiormente si apprezza nell’arte quanto maggiormente questa si compiaccia invece di vacuità, di lenocini che per il pubblico sono come per le allodole lo specchietto. Ciò che nel Sacheri non trasparisce - ed è pregio - sta nel tormento, che s’intuisce, dell’artista di fronte all’innafferabilità di luci, di colori, di sfumature fuggevoli, di cui si ha esempio - in certe ore del giorno - nella laguna di Venezia.
Si vede, si capisce che il Maestro fa dell’arte per sentimento piuttosto che per ambizione di gloria o di denaro; per un bisogno, la soddisfazione del quale è necessità
Per ciò, sebbene bravissimo nella tecnica, sebbene il suo pennello disegni e dipinga al tempo stesso, si può essere certi che alla tecnica non sacrificherebbe l’espressione, il colore, come uno scrittore che alla forma anteponga l’idea, la sostanza, la verità. Perché per quanta tecnica si possegga, per quanto studio vi si metta, certi quadri non si dipingono, certi attimi non si afferrano, come non si fermano certi stati d’animo, se non è nell’artista un qualchecosa che guidi l’occhio e la mano; quell’amore (inesprimibile come tutti i forti sentimenti) che faceva al Segantini provar "lo stesso entusiasmo a dipingere un filo d’erba od il cielo", elevar inni alati alla Natura, scrivere: "Ho amato i miei poveri compagni, i giochi e i bambini perché mi sembrava che la loro amicizia mi purificasse un poco" - "L’arte è intermediaria fra la nostra anima e Dio - Creando un opera d’arte noi riusciamo a elevare e a mobilitare l’anima nostra, e talvolta anche l’anima altrui" e tale opera dev’essere "l’incarnazione dell’io con la natura e non l’incarnazione di un terzo coll’io" - "Che cosa faccio? Io penso di stringere la natura nel mio pugno e di comporne un poema".
Come la verità non è, in fondo, che un fatto veduto sotto un dato punto di vista, così l’arte non è che la natura veduta (meglio: sentita) attraverso un temperamento. Arte vera - scrissi un giorno nel mio taccuino - è quella che più veramente ed intimamente interpreta la natura. Ed il più vero artista (ed il più grande, anche se ignorato o misconosciuto) è colui che dell’immenso, misterioso, divino libro delle natura è il più fedele traduttore.
Tanto più, posso ora aggiungere, sarà grande l’individualità dell’artista quanto più egli saprà percepire, esprimere l’individualità delle cose, degli esseri. Mentre, in generale - a dirla col Bergson - "noi non vediamo le cose; ci limitiamo, di solito a leggere le etichette appiccicate su di esse".
Squisita è dunque la sensibilità del Maestro (e si ravvisa nelle sua stessa fine scrittura, quasi femminea) ed è certo appunto questa sensibilità che gli fa preferire - in esse rendendolo, secondo me, preferibile - le tonalità medie e basse, i quadri nei quali egli meglio trova ed esprime se stesso e che sono appunto quelli che nell’attuale Mostra ebbero maggior consentimento d’intenditori e di pubblico, in alcuni dei quali egli ben si può dire attinga quella difficile perfezione che consiste nel saper immedesimare il reale coll’idea: Mattini e tramonti: Notti nuvolose, con palpitanti iridescenze lunari. Angoli con ombre miti. Ed ombre dense e mezze luci, sulla terra e sulle acque.
Ricordate il tranquillo, armonioso "Pascolo", dinanzi al quale vi sovviene del Carducciano "divino del pian silenzio verde". Il burrascoso, finissimo "Levar di luna sul mare" con quel fosforescente, impareggiabile nella sua realtà, riflesso di luce nell’onde corrucce, su cui i vecchi cipressi inclini par che dicano pace. Rammentate il romantico "Levar di luna sul canale"; le espressive, deliziose "Sensazioni" (certune delle quali sono piccoli capolavori). Socchiudete un istante gli occhi in rimirar il "Tramonto sul mare" e vi parrà cosa reale, anche se possa lasciar dubbioso il profano la forse un po’ sagomata luce che, sullo sfondo, si sprigiona da nubi piuttosto dure. Vi richiamo ancora: "Notte di luna in Danimarca", "Crepuscolo", "Sul fiume", "Nostalgie d’autunno",, "Tornando all’ovile" - che l’autore preferisce anche per la maggiore difficoltà tecnica - "Sera sul fiume", "Ruderi nell’ombra", "La bufera". Ed altri ancora di una pastosità, morbidezza notevoli, come notevoli nella tecnica dell’impasto, nel giuoco delle luci e delle ombre, nell’intonazione delle tinte - così nell’insieme come nel dettaglio -. Fra i più chiari, anzi luminosi, ricordo il "Mattino di primavera" (acquistato poi dalla Sig.ra Rosa Guardicerri).In certuni di essi non si sa se più ammirare la bravura dell’artista o la sua paziente fatica.
Quel sentimento e tale bravura spiegano e giustificano appieno i successi del Sacheri in Italia e all’estero, appieno riconosciuti nel nostro modesto ambiente provinciale, che lo fanno ammirato e... comprato un po’ dovunque.
* *
Tale il mio pensiero sull’arte e sull’artista. Con tale pensiero, domenica scorsa alle convenute ore 14 io bussavo all’abitazione che il Maestro s’è scelta nella solitaria, bella Via S. Chiara, con da presso le virenti colline di Bacezza e di Leivi, da lunge il bernoccoluto Mignani, l’aspro e troneggiante Ramaceto.
Mi aperse lo stesso Maestro. Condottomi nel suo studio (privo, come, lui di ricercatezze), mi fece passare dinanzi agli occhi tutta una visione di acque, di paesaggio, di cielo, di tinte come mai ne vidi nella mia piccola vita. Canali, porti, spiagge, rive, sensazioni fuggevoli di viaggi. Studi ed abbozzi, alcuni bellissimi. Non manca il fantastico, e ricordo una nave fantasma che passa dinanzi uno scoglio d’impiccati, a base di rosso nelle sue più scure tonalità, che mette in memoria il falso amico di ieri, il barbaro nemico di oggi, il - speriamo - defunto monarca di domani...

Più notevoli certi cartoni olandesi e danesi. Ma in essi, come nelle gran parte degli altri, prevale il tono scuro, o romantico, o drammatico. Dello stesso "Pascolo" in Mostra vidi riproduzione su codesto tono. Si direbbe che all’idillio l’Autore preferisca il dramma, quasichè drammatici fossero i casi suoi, o la sua concezione della vita.
Mentre l’artista mi andava illustrando or l’uno or l’altro dipinto, io meglio mi persuadevo di averlo esattamente colto.. Egli maneggia le opere sue, le guarda, con semplice culto sacerdotale, le carezza con gli occhi con lo stesso affetto di una madre pei figli. Meglio potei confermarmi nella persuasione quando, ritornato in me stesso quasi da un mondo di sogno, tentati qualche domanda.
- Io sono venuto a Lei, Maestro, come ammiratore e come... intervistatore. Ed anche per ringraziarla di averci procurato un godimento intellettuale, straordinario in sé e per la sua importanza. Si trova bene a Chiavari? Che ne dice del nostro paesaggio?
- Chiavari con la sua quiete luminosa è un delizioso soggiorno ed il paesaggio che l’attornia è fresco e vario, dalle sponde dell’Entella ai monti ricchi di alberi. E’ nella città e né suoi dintorni quel senso indefinibile ma pure evidente che distingue i luoghi privilegiati, e di ciò si ha continua conferma nella gradita soddisfazione che la vista di questa parte di Liguria procura a chi la vede per la prima volta.
- Perfettamente, Maestro. Ed è appunto per la quanto possibile miglior conservazione di codesto paesaggio - nel limite delle nostre forze e... dell’assenza di leggi all’uopo - che fondammo una Società, coll’incoraggiamento dell’ora ex Eccellenza Rosadi, la quale ha fra i suoi soci perpetui il Comune di Chiavari e la Deputazione Provinciale. Non vorrebbe Ella onorarci d’essere dei nostri?...
- Accetto con gratitudine l’invito ad esser Socio della Società.
- A proposito di mostre. So ch’Ella più volte espose, per invito, alla biennale di Venezia, ove anche di recente ottenne soddisfazioni artistiche e... pecuniarie. Espose in altre città ed all’estero?
- Sì. Fra le migliori soddisfazioni della mia vita di artista, ricordo le mie esposizioni individuali di Milano, Parigi e Roma.
- E nelle sue peregrinazioni, quali paesi lasciarono più gradita impronta nella sua mente?
- Nelle mie gite d’arte ho sempre preferito i piccoli paesi del nord. Così, adoro la vecchia Olanda, la civilissima piccola Danimarca, ed il Belgio glorioso.

- E qual’è la sua miglior soddisfazione, nel lavoro?

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- La soddisfazione migliore, per me, è quella di fare una bella pipata dopo aver lavorato due ore febbrilmente per mettere sul cartone o nella tela l’impressione di un bosco autunnale, o di uno stagno, o di un mare indiavolato.
- Quali intenti la guidano nell’esplicazione de’ suoi ideali artistici?
- Cerco di mettere nel lavoro quel sentimento ch’è nel vero e ch’è fuggevole e spesso inafferrabile. Io stesso, del resto, sento di non poterle ben esprimere ciò che provo.
- Naturale, Maestro. Non dice lo stesso proverbio: quel che molto si sente poco si esprime? E’ forse per ciò che molti romanzieri alla Bourget fanno della psicologia... a freddo. - Che ne pensa delle attuali condizioni della pittura e delle varie scuole sorte. Mi sembra che nella pittura - della quale, d’altronde, posso poco imbarazzarmi - accada
come (Dio ci liberi!) nella politica - della quale non mi occupo affatto. Le scuole, come i partiti, si disgregano, si frazionano, ognuna pretendendo di possedere il verbo perfetto ed infallibile, donde il non lontano pericolo di dissolvimento, del caos dal quale, forse, rinascerà una nuova era.
- La pittura moderna ha il vanto d’aver guardato e tentato audacemente la luce, l’aria aperta, la profonda poesia dei campi...
- Si, ma...
- Ma è necessario essere eclettici ed accettare il buono in qualsiasi modo ci venga espresso. Perché la tecnica non deve mai darci troppa preoccupazione (Notate!). Invece per misoneismo, o per altro, respingiamo quanto, più tardi, ad occhio educato, può sembrarci ben degno di rispetto.
- Il misoneismo cui Ella accenna ha la sua maggior stanza nelle Accademie, le quali non possono di per se stesse formare l’artista, come la grammatica non forma lo scrittore.
- Certo, nessuna accademia insegnerà a dipingere un’onda! Non vi sono linee e dati fissi.
- A proposito di onde; quale differenza vi è, per lei, fra il mare e la campagna?
- Nella campagna è più facile trovare linee diverse ed emozioni pittoresche. Il mare è difficile ad afferrarsi, pel suo continuo cambiamento di linee e colori. Quando è azzurro, è lieto, ma non fa pensare. Quando è agitato è un poema. (Notate, ancora una volta, il “fosco”, il drammatico…). Del resto, Le ripeto che mi è difficile esprimermi...
- Abbastanza!... Ed a proposito di accademie: In quale di esse, Ella studiò? Vuol dirmi qualche cosa della sua carriera iniziale?
A questa domanda, come ad altre che io feci, il Maestro ebbe per un momento come un impeto di repulsione. Già avevo notato con quanto sforzo egli parlasse di sé. Poco, quindi, mi aspettavo, poco mi disse, ma anche in quel poco era la conferma del suo temperamento e... delle mie intuizioni. Mi accennò di aver studiato a Genova (ove
nacque), nel Collegio Nazionale, dietro l’Annunziata. Poi andò a Torino, all’Albertina, credendovi di trovare il Fontanesi, ma questi venne a mancare proprio in quei tempi. Poi, stanco prese colori e pennelli e via per i campi, studiando da sé, sul vero.
Avendogli chiesto quale primo impulso la spinse all’arte ed... ai campi, rispose che furono il sentimento ch’egli leggeva nelle cose ed il, desiderio di libertà.
Parlando d’arte, la sua persona aveva, parvemi, impercettibili vibrazioni. La sua fronte pensosa, che rughe severe solcano; il suo volto, glabro, raso, un po’ magro, un po’ affilato, parevano animarsi; e nell’0cchio avvezzo all’indagine, in essa affaticato, si accentuava la bontà, animandosi di leggera arguzia.
Ci intrattenemmo, ancora, sugli artisti di Torino, dei maggiori fra i quali, che lo hanno in grande stima e considerazione, egli è amicissimo. Conobbe il Bistolfi un grande scultore ed uno squisito paesista. Dell’autore del "Supremo Convegno" mi mostrò, appesa ad una parete, una pensosa testa di donna; di Paolo Gaiano, egregio freschista, una
splendida, viva testa di vecchio
Da quanto ero con lui? Da quanto durava il mio sogno? Parevami mezz’ora, ma l’orologio mi assicurò che di ore stavano per passarne due.
Ringraziatolo, salutatolo, auguratagli ottima l’imminente campagna ch’egli trascorrerà in Piemonte, mi affrettai a prendere l’uscio.
Perché, anche con un paesista, sarebbe stato eccessivo dimostrarsi... paesano...

Uno di Via S. Chiara



LA VALLE PESIO - Periodico della "Pro Valle Pesio" - Chiusa Pesio (CN) - Maggio 1952

Ricordo di Giuseppe Sacheri

Gli era piaciuta un giorno la campagna che vede i primi e gli ultimi riflessi del sole sulle cime terminali della Besimauda.

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Da quel giorno, ogni anno era ritornato dalla patria Liguria a villeggiare nella nostra terra a Chiusa, a Roccaforte, a Pianfei. Da molti anni risiedeva stabilmente a Pianfei, chiuso in volontario romitaggio, as­sorto nella sua feconda attività di artista che sapeva trarre novità e varietà di alimento dalla meditazione, dalla lettura, dai ricordi di una lunga vita, dalla contemplazione del nostro paesaggio.
Quando si scatenò la matta bestialità della guerra, fu più solo e più silenzioso: immerso in un solilo­quio che riusciva difficile penetrare, non ebbe più orecchio che per le voci della natura, perché serba­vano, esse, immutata la loro musicale coerenza di linguaggio, mentre la voce dell’uomo, se non taceva nell’orrore della disperazione e della pietà impotente, era grido di rabbia o gemito di dolore. All’alba di ogni giorno ritornava nel vasto studio alla tavolozza, umida ancora dei colori di ieri, o si avviava per so­litari viottoli ai boschetti del Pesio; e si rinnovava il colloquio con l’eterno che si cela dietro le mutevoli apparenze, il travaglio di fissare sulla tela, nel ritmo del colore, una visione di bellezza e di pace.
Fu il poeta della nostra terra. Lo si vedeva spesso camminare lento o sostare sulla strada che divide la collina delle "Terre rosse" dalla piana del Pesio, con l’aspetto intento di chi cerca con lo sguardo qual­cosa di molto lontano. I luoghi gli erano famigliari: conosceva quel boschetto di pioppi, quell’ansa del Pesio, quello scorcio con lo sfondo della Besimauda, quel ruscelletto che scorre limpido tra gli ontani, quei castagneti che salgono per pendii ripidi fino al diruto castello, che domina, di fronte a Monbrisone, l’abitato di Chiusa. Ma riscopriva ogni volta quei luoghi: perché, col mutare delle stagioni e delle ore, nell’estro cangiante della luce il ritmo del colore, delle masse e delle linee aveva timbri e cadenze diverse e nasceva ogni volta la vibrazione lirica di una nuova emozione.
Finché il vigore non venne meno, egli continuò a "lavorare", com’egli diceva, a contemplare su innu­merevoli tele, narrato o cantato, l’attimo di ebbrezza panica che lo aveva rapito "au ciel antérieur où fleu­rit la Beauté". Quando la mano più non resse il pennello e solo lo spirito rimase desto, egli continuò nell’attesa serena della morte, il suo colloquio col nostro cielo, contemplando, oltre la vetrata, l’aperto orizzonte della pianura cuneese. Nell’imminenza della morte il suo sguardo indugiò sulla stanca dolcezza dei colori autunnali, sulla cerchia lontana delle Alpi e raccolse dalla divina gloria ruris, che egli aveva virgilianamente amata, il sorriso del commiato e l’augurio d’un trapasso sereno.
Si spense come gli uomini della mitica età dell’oro, di cui canta Esiodo, che morivano "come irretiti dal sonno", quando una vita felice, perché semplice e pura, trovava la sua conclusione naturale nell’eutanasia del lento assopirsi.
Prima che la maturità lo spingesse a cercare l’approdo, aveva molto viaggiato, aveva visto genti e paesi in Europa e oltre mare.
Aveva conosciuto il non sollecitato favore delle critica, il successo in Italia e all’estero: erano ricer­cate le sue marine, apprezzatissimi i paesaggi ispiratigli dal soggiorno olandese, consona al gusto del tempo, ancora fedele alla tradizione del naturalismo ottocentesco, la sua sensibilità romantica, contenuta nella misura di un classico rigore di espressione.
Cantava le ruggenti collere e le luminose estasi del nostro mare con un fervore dionisiaco che si tra­duceva in movimento di linee e drammatici contrasti di tono, obbedientipur sempre ad un vigile senso di euritmia e di coerenza estetica.
Cantava il fascino delle antiche città nordiche addormentate nel silenzio notturno presso le acque stagnanti dei loro canali, con i colori cupi della reverie elegiaca, con la musicale tristezza di certe no­stalgiche poesie di Rodembach.
In molti quadri il mulino cantato da Verhaeren:
"Le moulin tourne au fond du soir, très lentement"
"Sur un ciel de tristesse et de melanconie."
Frequenti i notturni musicali che evocano l’atmosfera misteriosa di un remoto mondo fiabesco, brume che gravano su sconfinate pianure, fantasmi di edifici e di strade dove la presenza dell’uomo è ap­pena suggerita da tremule luci riflesse nel colora terso dell’acqua o da curve sagome umane in funzione esclusivamente cromatica.
E’ significativa questa rara e appena accennata presenza della figura umana nei quadri di Sacheri.
Egli rifugge dal tema che mette in primo piano la figura e che lascia al paesaggio la funzione secon­daria di commento lirico o di elemento decorativo: evita l’analisi del particolare, la forma chiusa, la natu­ra morta, la circoscritta prospettiva di un interno.
Mentre il Novecento vedeva moltiplicarsi le scuole che scendevano in campo contro l’arte dell’Otto­cento con poetiche e programmi rivoluzionari e cercavano nuovo mondo di poesia nell’ardita confes­sione di un tumulto psicologico non sempre purificato o nelle cerebrali astrazioni di un simbolismo me­tafisico, egli restò fedele alla Musa della sua giovinezza, alla concezione romantica di una natura in cui l’uomo è una, soltanto, delle infinite manifestazioni del divino.
Nei quadri di Sacheri c’è quasi sempre l’immenso respiro del cielo, la pianura che si perde in remote lontananze, la varia sinfonia del mare aperto.
Lo scorcio di spiaggia sabbiosa, lo scoglio dirupato, la casa, il boschetto, lo stagno, sono il limite, oltre il quale la fantasia del contemplante si smarrisce nell’infinito. Vari sono i modi dell’evocazione, muta la tecnica della pennellata, a seconda del soggetto, variato nel taglio secondo numerosi schemi di composizione.
Ma non intendo parlare del lessico e della sintassi del suo linguaggio figurativo: il problema di una caraterizzazione critica, d’altronde assai arduo, esule dal mio tema ed esige la competenza di un conoscitore.
Non è facile dire dove il discorso diventa canto, dove il lirismo si purifica in lirica dove il buon mestiere si trasfigura in arte.
A me pare che nella solitudine di Pianfei durante un quarantennio di attività prodigiosamente feconda, il progressivo affinamento spirituale del pittore sia testimoniato dalla qualità estetica di molti quadri che sono il nitido specchio dell’anima giunta, oltre il tumulto passionale, alla catarsi della contemplazione serena, frammenti di una confessione in cui gli impeti della gioia e del dolore si sono come placati e sublimati nella pura calma di una compiuta espressione artistica. Sono i momenti apollinei della sua arte: attimi di stupore ingenuo e di estasi adorante il divino mistero dell’essere.
Penso specialmente a certe sue interpretazioni della musica triste dell’autunno: la pennellata si è fatta lieve, i colori in magico accordo di toni non hanno più materiale consistenza, ma sono divenuti vibrazioni luminosa, aerea iridescenza, "pur ruissellement de la vie infinie", che sorride nella mestizia dell’autunno morente.
Penso alla "chanson grise" di certi attediati paesaggi invernali; all’incanto di pleniluni su candori di nevi trascoloranti al brivido di una fredda luce diffusa; alla levità di certe marine, che non sono il mare ma motivi sinfonici della infinita musica del mare; al fascino malinconico dei tramonti, in cui la musicale gamma degli azzurri di monti lontani, di casolari che fumano, di greggi che tornano all’ovile e non sono più che una indistinta massa in movimento nell’ombra del crepuscolo, ridesta in cuore l’eco del canto bucolico di Virgilio.
et iam summa villarum culmina fumant
maioresque cadunt altis de muntibus umbrae
La sua poesia più pura nasce proprio quando, in questa trasfigurazione del bello naturale, il mistero della natura che egli interroga e contempla attraverso le lacrime della commozione, pare che si animi e vibri di umana mestizia.
"Sarà proprio vero - dice il Russo - che quando si abbandona la fiducia negli uomini e nelle cose, si fa più intenso in noi il desiderio di cielo, che nel linguaggio convenzionale di tutti i giorni chiamiamo trivialmente amore della campagna e del paesaggio, e che forse vuole essere, sotto terreni simboli, amore,, gusto e tristezza dell’eternità."
Questo anelito ad uscire dal limite e dall’imperfezione della condizione umana, questo bisogno di purificazione religiosa che spinge gli spiriti eletti e delusi alla rinuncia e alla solitudine, nell’ansia di interrogare sopra le stelle del cielo e dentro di sé la legge morale, spiega insieme il carattere dell’opera e il significato di una vita che fu approfondimento e affinamento morale, meditata conquista di ingenuità.
Preferiva la compagnia degli alberi a quella degli uomini, ma con gli intimi la sua conversazione era piacevole, arguta e paradossale.
Soleva dire che gli uomini sempre o quasi sempre deludono, mentre la natura non delude mai.
Lo spettacolo dell’ignoranza e del vizio non offendeva in lui soltanto la coscienza morale, ma lo feriva anche come dissonanza, come deformità, come oltraggio al senso dell’armonia.
E citava Baudeloire: "je ne crois pas qu’il soit scandalisant de considerer toute infraction à la morale, au beau moral, comme une espéce de faute contre le rjthme et la prosodie universels".
Ogni apprezzamento di uomini ed eventi rivelava l’equilibrio di uno spirito che non oltrepassava il limite di una indulgente ironia o di una pietà comprensiva e pensosa.
La comunione con la natura, che è sempre schietta e non ha mai aspetti ridicoli, la scaltrita capacità di scrutare attentamente oltre le apparenze gli facevano cogliere facilmente nella mimica, nel parlare, nel tacere di un uomo quanto vi fosse di dissonante e di ridicolo nel suo pensare e nel suo sentire.
Il volto, solitamente serio e pensoso, si illuminava tutto quando egli rideva, d’un suo riso lungo, incontenibile, moltiplicato dalle rughe, semplice e schietto come quello di un fanciullo.
Perché egli aveva da vecchio, per virtù di ascesi, raggiunto la mite e sorridente semplicità di un saggio antico: e quella che era nella vita semplicità e probità morale si traduceva, nella sua opera di pittore, nella ricerca di quei limpidi valori formali di ordine, di coerenza e di equilibrio che l’esasperato intellettualismo di oggi, ripudiata la classicità, pare non intendere più.

Corrado Mongardi



Mio Nonno Sacheri - di Mario Bongioanni
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Un pittore di marine approdato a Pianfei

Vi sono luoghi, penso nella vita di ciascuno di noi, che assumono importanza preminente e con i quali ti senti connaturato, indipendentemente da ragioni di nascita o da intrinseche loro peculiarità. Pianfei è, per me, uno di questi.
Non che, con ciò, io voglia negare che il paesino, che si erge ridente sulla piana che congiunge Cuneo con Mondovì, presenti una sua particolare bellezza ed ogni altra dote per essere generalmente ammirato ed apprezzato, ma sono, nel mio caso, diversi i motivi di questo rapporto d’amore che tenterò di analizzare e partecipare a chi vorrà prendersi la briga di ascoltarmi.

Pianfei

Occorre innanzitutto premettere, perchè qui sta il nocciolo e l’essenza di tutto quanto segue, come parecchi anni prima che io nascessi (subito dopo l’evento delle grande guerra, addirittura!), questa tranquilla plaga del Cuneese, in allora remota oltre ogni dire, fosse stata prescelta, quale temporanea alternativa alla rappresentazione pittorica delle vaste marine della natÌa Liguria, dal nonno materno Giuseppe Sacheri.
Dapprima presenza saltuaria, limitata a cogliere gli aspetti naturali legati all’evolversi della stagione estiva in quella festa di luci, colori e sensazioni in cui l’autunno trasfigura la campagna, divenne quella in Pianfei, con il passare degli anni e con il naturale affievolirsi della insopprimibile esigenza artistica di ricerca di sempre nuove visioni creative, una permanenza, da parte dei nonni, sempre più insistita e, quindi, stabile definitivamente.
Si creò, da allora, un rapporto di sublime comunicazione, ininterrotto per svariati lustri, tra la natura, apparentemente semplice di quei luoghi e chi, per innata sensibilità artistica affinata da studi prima, e da una continua ricerca di perfezione poi, seppe cogliere ogni più recondito aspetto e tradurre in forme e colori le infinite sensazioni che l’animo traeva da una assidua contemplazione di fenomeni e spettacoli naturali, colti attraverso la luce ed il filtro di un commosso sentimento (incline, talvolta, ad una vena di malinconia!) e con l’impronta, sempre, di un amore smisurato per il vero e per il bello.
Fu, il suo, un rispetto profondo per tutto il creato, che si estrinsecò anche nei rapporti con chiunque ebbe il modo di conoscerlo. È immaginabile come, inizialmente, possa aver destato una certa curiosità, se non vera e propria diffidenza, il fatto che il "Prufesur" (chè come tale era conosciuto per essere stato professore di Accademia), avesse potuto abbandonare Genova per trasferirsi, con tutta la famiglia, in una borgata di campagna, senza nessune comodità, in allora e, per di più avendo il "dipingere" come unico mezzo di sostentamento!
Col passare del tempo divenne, invece, per tutti una bella consuetudine di incontrare quella figura così diversa e gentile, nell’impeccabile eleganza della persona, durante le sue interminabili passeggiate, o di sostare qualche attimo presso il suo cavalletto per ammirare, con stupefatta riverenza, il paesaggio che si andava delineando sotto i sapienti tocchi di colore che sapeva trarre dalla tavolozza.
Fatte queste premesse, resta più facile comprendere come sia potuto nascere un legame particolare, tra me e quei luoghi, fin dalla primissima infanzia attraverso la visione poetica, incantata, dei quadri del nonno, prima ancora di poterne avere una conoscenza diretta. Era infatti tutto un mondo di sogno quello che appariva al geloso dischiudersi della tenda dello studio, la cui intimità era custodita dalla nonna con devozione quasi sacrale, quelle rare volte in cui vi era ammessa la nostra presenza infantile.
Si sostava, allora, rapiti dinnanzi a quelle grandi tele ove, accanto a visioni di navi nel porto di Genova, o di scogli a picco sul mare, o di onde frangentisi con spruzzi altissime tra barlumi di sole in cieli corrucciati, si stagliavano primavere dolcissime nelle infinite tonalità dei colori; stagni colti nell’ora dell’imbrunire quando vi scendono, per abbeverarsi, gli armenti; prati smeraldini, o dorati dal grano maturo, o ingialliti dall’autunno incipiente o, infine, appena imbiancati da una nevicata repentina! Ed ancora, assolati meriggi estivi ove macchie d’ombra nelle radure, tra gli alberi, dànno il senso del magico momento della siesta, legato ad una presenza umana appena immaginaria. E gli autunni con i campi arati in cui, al perdersi all’infinito delle brune zolle giusto rivoltate, fan da cornice alberi dal fogliame già scuro e cieli ingrigiti da piogge imminenti od appena cessate; pendii ancor verdi, ma dove già occhieggiano i colchici violetti, presaghi del mutamento stagionale; e le prime nebbie, col l’irrorar delle rugiada a soffondere con un velo di mestizia quello che fu il rigoglio estivo della natura; e poi, le nevi: dapprima contrastanti ancora col verde residuo e, poi, sempre più fitte, coprenti, in armonia coi toni ormai grigi della natura già spoglia e del gelo che tutto sovrasta, quasi a creare un manto di protezione, una pausa di riflessione, nel procedere travagliato dell’esistenza!
Certo fu, il suo, un modo di dipingere dettato da una esigenza interiore, alieno da ogni altro fine che non fosse quello di un appagamento dell’animo che rifuggiva da qualsiasi forma, anche solo pensabile, di compromesso o venalità!
Ciò gli consentì, anche in anni che divenivano via via più difficili pure nel campo dell’arte, di ricevere il sempre unanime, lusinghiero ed ammirato apprezzamento e il riconoscimento della sua personalità artistica, secondo i canoni classici della critica, improntati ad una serie di obiettive ed inconfutabili certezze estetiche e a valori eminentemente spirituali. Certezze e valori che, trascorso un periodo di generale disorientamento, non tarderanno a riproporsi nella loro piena ed insostituibile validità.
E qui mi ricollego all’originario discorso sui miei rapporti con Pianfei o, per meglio dire, con quei luoghi del paese stesso, che costituirono i limiti del nostro girovagare di bambini, in tempi in cui non era dato di superare certi orizzonti di spazio, vuoi per la pochezza dei mezzi disponibili e vuoi, anche, per la semplicità della vita le cui essenziali esigenze trovavano soddisfacimento in ambiti ristretti.
Lo scenario era dunque compreso tra le acque spumeggianti o quiete del torrente Pesio, a valle, tra le file di alberi che lo contornavano, la vasta piana punteggiata di gelsi (con, al limitare, la quinta maestosa delle Alpi Marittime e della Bisalta in primo piano), la riva che inerpicandosi conduceva alla borgata e, quindi, alla casa dei nonni, un altro tratto di coltivo pianeggiante a monte e, finalmente, la collina boschiva densa di ombre e di misteri. Le prime immagini visive, che sono rimaste nitidamente impresse nelle mia memoria, pur nell’incertezza dei contorni sfumati come in una fotografia ormai ingiallita, risalgono ad attimi indecifrabili dell’epoca di guerra, quando "sfollammo" dalla città a Pianfei, per l’appunto, nella casa dei nonni.

Casa Sacheri

Facciata Casa Sacheri Targa Casa Sacheri


Scorrevano veloci e liete, le ore, sino al pranzo dai sapori inconfondibili (che mi sono rimasti indelibilmente impressi) e quando poi, i grandi passavano nel "salottino di vimini" ove il nonno era solito leggere "a Stampa", noi bambini eravamo lasciati liberi di scendere nella borgata, alla scoperta di un mondo nuovo ed affascinante.
Si ripropose annualmente, per un lungo periodo, questa piacevolissima parentesi estiva, suscitando di volta in volta sempre nuove sensazioni spirituali di mai paga voluttà.
Finché un triste autunno avemmo la percezione, dal volto improvvisamente teso e preoccupato della mamma e da parole appena bisbigliate, dell’approssimarsi di un evento del quale non mi capacitavo appieno, ma che presagivo nella sua dolorosa portata. Quando, poi, la mamma partì improvvisamente per Pianfei, con un viaggio non già propiziato dalla gioiosa ricorrenza della festività di San Giuseppe e, dopo giorni di solo apparente normalità in casa, si ebbe alfine, con la tragica laconicità del mezzo telegrafico, la certezza che un incantesimo si era spezzato... che la vena pittorica del grande del grande nonno si era interrotta, dovendo soggiacere alla crudele ma naturale legge del tempo, si trattò della prima vera grande tristezza della mia vita!
E’, tuttavia, ancor forte il fascino discreto che esercita quell’angolo di terra (per molti aspetti ancora incontaminato) su di me, su di noi, su chi vi si accosti in umiltà e purezza di spirito, alla ricerca di una testimonianza di vita, di cose ed eventi passati che la patina del tempo è riuscita solo a velare di una melanconia intima e dolce, ma non a scalfire minimamente nelle essenziali validità ed integrità dei rapporti umani intercorsi, delle sensazioni di un benessere spirituale appagante.
E, poi, vi è rimasta quasi intatta la casa dei nonni, con la sua atmosfera in cui si avvertono ancora presenze cariche di affetti intensamente vissuti ed irripetibili, tra le quali pare di intravvedere il nonno aggirarsi ancora tra colori e pennelli, in quella inesausta creatività artistica che ci ha lasciato l’impronta visibile, toccante, ammirata ed imperitura del suo grande animo!
Il Subalpino – Cuneo
24 Ottobre 1950


Intervista a Sacheri poco prima della sua morte.

C’era nell’aria il presentimento della primavera.
Il pittore alzò il bicchiere e guardò il vino in controluce, poi disse: "Lei è quello che ha parlato male di me".
Eravamo nella grande veranda battuta dal sole; seduto a capo tavola con una specie di giaccone verde bottiglia Sacheri mi guardava senza rancore, come se le parole di un mio articolo, forse un po’ cattive, non avessero toccato la sua consapevole serenità.
Gli ero seduto vicino. Mi sentivo piuttosto intimidito e anche un po’ mortificato, quasi come uno scolaretto in colpa. Il vecchio pittore indovinò e mi sorrise: "Vada, vada nel mio studio, giri liberamente nella casa, comprenderà, forse, il perchédella mia piccola fama". E non volle che mi giustificassi:"Un giovane non deve nè pentirsi, nè chiedere scusa. Quello che fa è sempre leale". Aveva tanta saggezza e comprensione che gli volli subito bene. Rimasi zitto a guardarlo. Pareva un personaggio antico, risuscitato da un libro di mitologia. Il viso irregolare illuminato da due piccoli occhi vispi, mobilissimi, i capelli candidi lucenti ravviati all'indietro gli conferivano un certo aspetto faunesco. Era proprio come nel ritratto dipinto da Fracchia, appeso alle sue spalle. Gli occhi soprattutto mi affascinavano e, seduto com’era di sghembo, li vedevo ora nel dipinto ora nel pittore altrettanto vivi: occhi felini, fosforescenti.
Vi era tanta pace e tanto amore in quella casa che subito mi sentii a mio agio; l’ospitalità antica dissipò ogni mia timidiezza. fui felice di essere venuto a Pianfei per conoscere Giuseppe Sacheri, l’illustre pittore ligure. D’altra parte non potevo non andare. Non mi sarei accontentato dei pochi lavori visti in una grigia e pigra giornata di primo autunno a Mondovì. Quello non era il Sacheri che immaginavo, il pittore celebre che aveva scelto un paesino della nostra terra come suo ultimo romitaggio, come estrema ancora al suo peregrinare attraverso il mondo.
Il pittore era convalescente, la sua forte tempra aveva subito un collasso pochi giorni prima.
Aveva 86 anni.
Malgrado si sentisse ancora molto debole, aveva lasciato il letto da poco, volle ricevermi.
Fu affabile, gentile e parlò anche molto con non poca disapprovazione della sua signora che temeva si affaticasse troppo.
Volle che bevessimo insieme: "Come, in Piemonte non sturare ’na buta quando viene un amico?!"
Aveva voglia di discorrere, era animato da quella vitalità, un tantino euforica, dei convalescenti. Mi parlò molto della sua vita di marinaio e del mare. Non mi parlò invece della sua pittura; voleva che l’arte sua la scoprissi da solo senza influenze.
Mi disse di aver esposto alla Promotrice B.A. di Torino ancora con Delleani, e a questo proposito evocò per me, con arguzia felice, un piccolo episodio. Alla Promotrice il regolamento permette che ogni pittore esponga al massimo due quadri. Delleani, oltre ai due suoi, talvolta ne presentava altri, che, provvisoriamente faceva firmare dai suoi allievi. Per cui un giorno il pittore Pollonera commentò: "Delleani ha esposto due quadri e ne ha venduti cinque".
Sacheri gioiva di questi ricordi: i suoi piccoli occhi ridevano, come pure pareva ridessero quelli del ritratto.
Mi mostrò anche una medaglia d’oro, nella quale era stato inciso il suo profilo. Medaglia che gli avevano fatto coniare ed offerto gli artisti liguri quando il maestro lasciò la presidenza della Promotrice di Genova.
Oltre la nostaglia del mare egli era sofferente di non poter dipingere. "Sono stato un po’indisposto, ma fra poco riprenderò i pennelli". E gli occhi si illuminarono nella speranza. "Mi recherò laggiù, farò la primaver". E con la mano mi indicava una lontananza, per me astratta, che si affacciava alle vetrate della finestra. La mano gli tremava nel gesto, era una mano stanca.
Quel tremito mi dava pena e mi faceva dubitare della realizazzione di quel suo sovrumano bisogno di dipingere. Malinconia di certi pensieri. Eppure la mente era ancora tanto viva ed intelligente che avrebbe potuto creare visioni di colore, ma la mano non gli avrebbe più ubbidito. Pensare il quadro, vederlo e non poterlo fare. Questo rimuginavo mentre egli parlava nella calda veranda calda di sole.
Poi, dietro la gentile padrona di casa, mi recai nello studio.
Giuseppe Sacheri fu pittore fecondo e attivissimo per lunga vita. Egli ha prodotto una stragrande quantità di opere con una abilità di mestiere portentosa.
Definire la sua pittura è impresa difficile e di più ancora lo è inquadrarla in un suo posto. Sotto un certo aspetto egli è stato un neo–romantico con un pizzico di naturalismo.
Nei suoi viaggi ebbe modo di vedere molto, certamente conobbe l’opera del grande Turner, del francese Boudin, il primo maestro di Monet, di Calame; ammirò sicuramente Fontanesi e Delleani. Elaborò le visioni di questi grandi paesisti in una pittura sua, versatile e personalissima.
La visita allo studio mi convinse di questo e mi dimostrò che egli fu un virtuoso della tavolozza. Perseguì, infatti, armonie complesse, addensando una infinità di paesaggi entro una ristretta scala di toni. Questo per dare profondità e risonanza ai suoi cieli e ai suoi avvolgimenti atmosferici.
I temi prediletti del maestro furono porti, marine e spiagge, temi spesso dominati da cieli corruscanti e sovente da vivaci macchiette, toccate con arguto brio di pennello.
Abilissimo nell’evocare sulla tela gli aspetti della notte, in magiche visioni lunari, Sacheri, anche se concesse molto all’effetto, rilevòin esse coerenza ed elevatezza di stile.
La visita allo studio si protrasse a lungo e fu laboriosa. Troppi erano i quadri, gli studi, i bozzetti da vedere. Così sfilarono per la mia ammirazione, marine, nevi, notturni, paesaggi di Olanda, primavere di un verde tenero, il verde Sacheri, delicate nei rosa dei peschi in fiore.
Naturalmente, forse non tutto era arte pure, ma quasi sempre il mestiere e il virtuosismo erano di specie superiore.
Rimasi stupefatto di tanta bravura. Non aveva più importanza il vero o la maniera e compresi appieno il perché della notorietà di Sacheri.
Quando rientrai il sole aveva abbandonato la veranda. Il maestro s’era assopito con una coperta sulle ginocchia. Respirava lentamente. Il risveglio fu dolce come quello di un bimbo. Subito i suoi occhi si animarono, gli dissi della mia ammirazione. Ne fu contento. Si fece promettere che sarei ritornato a Pianfei, mi avrebbe parlato delle sue esposizioni in Olanda, in Belgio, a Parigi, a Londra, mi avrebbe mostrato le recensioni di critici di fama europea. Promisi che sarei ancora tornato. Che in un mio prossimo articolo ... poi ... avrei riparato al giudizio irriverente. Pochi giorni or sono seppi della sua morte.
Aveva 87 anni.